In un celebre discorso tenuto a Calcutta nel 1786 dinanzi all’assemblea della Asiatic Society, che egli stesso aveva fondato due anni prima, il grande filologo e orientalista britannico, Sir William Jones, disse: «La lingua sanscrita, quale che sia la sua antichità, ha una struttura meravigliosa: più perfetta del greco, più ricca del latino, e più squisitamente raffinata di entrambe». A parlare era l’uomo che per primo vide le somiglianze tra il sanscrito e le nostre lingue classiche e ne intuì la parentela linguistica – l’atto di nascita della moderna indoeuropeistica.
Il suo giudizio sulla «perfezione» del sanscrito sarebbe stato senz’altro condiviso dagli indiani di ogni tempo e luogo. Il nome stesso di questa lingua, saṃskṛta-, significa proprio questo: «perfetto, compiuto». Essa era ritenuta «lingua divina» in quanto lingua dei Veda, le sacre scritture dell’induismo – uno status che si estendeva anche al suo alfabeto, la devanāgarī o «scrittura della città degli dèi». Per i filosofi indiani della scuola Mīmāṃsā il sanscrito era, addirittura, una lingua eterna, al di là del fatto che fosse o no parlata dagli uomini. Con i filosofi concordavano i brahmani, che della sacralità rituale e immutabile del sanscrito erano i custodi; i grammatici, che non presero mai in considerazione l’idea di un’evoluzione diacronica della lingua; e i letterati, che nei loro drammi riservavano il sanscrito ai soli personaggi divini e regali, facendo invece parlare i personaggi di rango inferiore nelle lingue vernacole subalterne (i cosiddetti prākṛta- o «lingue naturali»: l’antonimo di saṃskṛta-).
La somma considerazione in cui il sanscrito era tenuto in India riflette dunque una realtà storica e sociale: esso era l’unica lingua di cultura panindiana, affine a quella del sacro testo vedico, parlata e compresa ovunque – perlomeno dalle élite colte – e in grado di significare, linguisticamente, tutto. In tal senso, però, lo statuto del sanscrito non differisce essenzialmente da quello di qualunque altra lingua veicolare di una grande civiltà. Non sembra né più né meno ‘perfetto’, per esempio, di quanto lo fosse il latino durante il Medioevo europeo, quando esso era la lingua dei chierici, delle università, della religione, e l’unico mezzo di comunicazione condiviso in un’Europa che già parlava il volgare; né, su un piano teologico, si distingue in ‘perfezione’ dall’arabo, la lingua scelta da Dio per rivelare all’umanità il suo libro (il Corano); persino i greci giudicavano ‘perfetta’ la propria lingua e ritenevano alla stregua di «balbuzienti» (barbaroi) i popoli che non la parlavano…
Eppure, se c’è un aspetto sotto il quale il sanscrito tiene fede al suo nome di lingua «perfetta», ciò si deve alla sua ineguagliata tradizione grammaticale. La descrizione della lingua sanscrita che, intorno al IV secolo a.C., fece il grammatico Pāṇini nel suo capolavoro, l’Aṣṭādhyāyī, era talmente precisa, rigorosa, economica eppur esaustiva, e virtualmente imperfettibile, che sottrasse per sempre il sanscrito (o almeno alcune sue parti: la fonetica e la morfologia) alla naturale evoluzione cui ogni lingua è soggetta. Si venne così a creare un caso unico al mondo: quello di una lingua che per quasi 2500 anni non mutò più né i suoni né la grammatica. Questo consentì alla civiltà indiana di produrre una letteratura sconfinata – per estensione spaziale e temporale – e assicurò all’India uno strumento di unificazione culturale più potente di qualunque altro (economico, politico, intellettuale, religioso…).
Il sanscrito è nato insomma, al pari di tutte le lingue, imperfetto – come ogni altro prodotto dell’attività umana; prova ne sia che esso, con isolate eccezioni, è oggi una lingua morta. Ma, benché nato imperfetto, è stato reso «perfetto» (nel senso etimologico di «intero, compiuto, a cui nulla può più essere aggiunto») dai suoi straordinari grammatici, la cui descrizione, pervasiva e minuziosa, di ogni aspetto della lingua ne fece uno strumento espressivo virtualmente immutabile per un tempo eccezionalmente lungo, e consentì la fioritura di una civiltà letteraria plurimillenaria – un caso unico nella storia dell’uomo. La perfezione non è di questo mondo, ma il sanscrito ci è andato assai vicino.
Om Shanti Shanti Shanti